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SWEENEY TODD: IL DIABOLICO BARBIERE DI FLEET STREET
(SWEENEY TODD: THE DEMON BARBER OF FLEET STREET)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 23 febbraio 2008
 
di Tim Burton, con Johnny Depp, Helena Bonham Carter, Alan Rickman, Timothy Spall, Sacha Baron Cohen, Jamie Campbell Bower, Jayne Wisener (Stati Uniti - Gran Bretagna, 2007)
 
Quasi immancabilmente, le primissime immagini di un film bastano per farci comprendere quanto dobbiamo aspettarci. Sul grigio scolorito da epoca cinema muto di SWEENEY TODD cadono candidi fiocchi di neve; sono quelli delle fiabe, della meraviglia, ma anche del terrore suscitato dai ricordi infantili ai quali si rifà, fino dai suoi primi BATMAN tutto l'universo poetico di Tim Burton. Ma subito, in quei mirabili titoli di testa, all'interno di un meccanismo d'altri tempi del quale comprenderemo ben presto l'utilizzo, ecco penetrare il colore, una goccia di sangue che si sostituisce al fiocco di neve, il rosso vermiglio di una colata lattiginosa che scende a lubrificare i denti dell'ingranaggio.

SWEENY TODD nasce dall'incontro, sorprendente come in pochi casi nel cinema di oggi, di vari momenti a prima vista impossibili. Il primo è costituito da una leggenda nella Londra di Dickens, un fatto di cronaca ripreso della stampa vittoriana del 1840 e da allora sovente tradotto in teatro ed al cinema: la vicenda truculenta, ma anche disperatamente romantica, di un barbiere che sbarca dall'Australia dopo quindici anni di esilio per vendicare la morte della sua giovane sposa. È un virtuoso del rasoio: alleandosi all'anima gemella di Mrs. Lovett, la locandiera i cui pasticci di carne necessiteranno di una sollecita, orripilante rinfrescata, il lirismo dei suoi propositi si muterà ben presto in un delirio grandguignolesco sempre più cupo.

SWEENY TODD tenebroso e depressivo? Non esattamente. Per il secondo aspetto di un film che, sempre più sorprendentemente, nasce da una commedia musicale. Un capolavoro della Broadway del 1979, nel quale all'enorme talento di Stephen Sondheim (paroliere di WEST SIDE STORY, musicista di Alain Resnais e di… Madonna) riesce la scommessa di trasformare quel paradossale Grand Guignol dagli echi cannibaleschi in un melodramma dai sontuosi toni operistici. La stessa, quasi insensata scommessa riesce trent'anni più tardi al cinema di Tim Burton: lo splendore lirico, la puntualità della cadenza, la cristallina risonanza delle melodie di Sondheim si fondono al celebre gotico visionario del regista, come alla sapienza felliniana delle scenografie di Dante Ferretti: per animare un contrasto, e da questo una dialettica poetica commovente quanto impressionante.

È la terza componente del film dovuta, ovviamente, al mondo del cineasta. Tim Burton risuscita gli alter ego che sono suoi per sempre, il protagonista mostruoso ma ancora puro e fiducioso di EDWARD MANI DI FORBICE, i marziani iconoclasti di MARS ATTACK, il Cavaliere senza testa di SLEEPY HOLLOW, le marionette macabre e grottesche dei suoi film di animazione per condurre agli estremi confini della follia le riflessioni sui miti dell'infanzia, sui sentimenti di personaggi predestinati che assistono alla degenerazione della propria innocenza. Appoggiandosi alle movenze musicali di Sondheim, ma liberandosene delle costrizioni in una continua, formidabile opposizione fra bellezza e spavento, Burton organizza la propria visione in uno spazio interamente ricreato in studio, nelle particolarità della direzione degli attori, fino al tono delle voci di quegli improvvisati cantanti.

Perché cantano (e pure bene) quei quarti artefici della magia di SWEENY TODD. Spettrale, pragmatica ma innamorata Elena Bonham Carter, nella quale si specchia l'itinerario paradossale del protagonista. Grottesche, sanguigne, saporose apparizioni del Sacha Baron Cohen di BORAT, o di Alan Rickman nei panni della "dickensoniana", contraddittoria crudeltà del giudice che funge da Cattivo. Infine, e soprattutto, il prolungamento sullo schermo di quel vero e proprio braccio espressivo del regista, il suo esecutore Johnny Depp. Portentoso di espressività proprio perché murato nel destino della propria missione, praticamente privato della parola, della mimica, della possibilità di esteriorizzare, anche perché indicibili, i propri sentimenti.

"Guardali", dice il protagonista prima di... adeguarsi, osservando i passanti in una delle poche scene di massa del film, "altro non sono che uomini che divorano altri uomini". Sarà allora ad immagine della splendida, profetica sequenza che conclude e sublima il film, una sorta di illuminazione shakespeariana messa in musica, che la vanità di quella vendetta permetterà di accedere ai confini fantastici e ormai neppure macabro-grotteschi del grande melodramma.


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